in calce all’articolo le foto dei diorami dello stesso
VITA E LAVORI SUL FIUME
Antichi mestieri e vita quotidiana lungo il corso dell’Arno
Da sempre gli uomini hanno fondato le proprie città e villaggi lungo il corso dei fiumi, per soddisfare le molteplici necessità legate alla propria esistenza. Approvvigionamento di acqua per sé, per gli animali e le colture, perché i fiumi sono una via di trasporto facile e poco costosa, l’acqua corrente è inoltre una ottima forza motrice a costo zero per azionare mulini, magli ed altri macchinari. Infine, in epoche dove i rifiuti erano pochi e tutti di origine naturale, con lo scorrere continuo dell’acqua il fiume risultava un ottimo sistema di smaltimento. Lungo i fiumi si svolgevano dunque una pluralità di attività produttive, commerciali, ma anche di svago e divertimento. Oggi l’Arno appare molto diverso da come appariva solo un secolo fa, quando le sue sponde erano frequentate da una molteplicità di persone dedite alle più svariate attività: manifatture, pescatori, renaioli, lavandaie ecc.
GLI ANTICHI PORTI
Già in epoca romana l’Arno era navigabile sia dalla foce che a monte dal medio Valdarno. Da documenti e reperti ritrovati nel tempo si è giunti alla conclusione che il porto di Firenze fosse ubicato all’altezza di ponte alle Grazie, sulla riva destra in prossimità dell’attuale piazza Mentana. Tale situazione è durata fino al XIV° secolo , quando per l’interramento del fiume e per la costruzione delle pescaie ( che servivano a regolare la portata del fiume durante tutto l’anno), hanno reso la navigazione impossibile e non più redditizia. Un altro porto, anch’esso di origine romana, si trovava tra l’attuale ponte alla Vittoria e il Torrino di S.Rosa. Vi si scaricavano le merci provenienti dalla costa o dalle città del Valdarno inferiore. Il toponimo Pignone (una sorta di muraglione eretto a protezione degli argini e per consentire lo scarico delle merci) ha dato il nome ad un borgo, il Pignone, dove si erano insediati gli operai e le maestranze che lavoravano al porto.
I MULINI
Le rive dell’Arno erano costellate di numerosi mulini, che trasformavano il movimento rotatorio delle pale o del “ritrecine” , mossi dallo scorrere dell’acqua, in movimento anch’esso rotatorio per la molitura dei grani o la spremitura delle olive. Oppure, attraverso una serie di leve e alberi a camme, il movimento rotatorio veniva trasformato in movimento lineare che azionavano magli ( per la lavorazione dei metalli o la gualca tura dei tessuti) oppure per il movimento di seghe a legno che trasformavano i tronchi trasportati dal Casentino in travi ed assi utilizzati nell’edilizia e nella falegnameria.
In S.Niccolò esisteva “Le Molina di S.Niccolò” per la lavorazione delle granaglie. Di tale opificio resta solo un grande piazzale oggi utilizzato a giardino.
LE PESCAIE
e pescaie sono sbarramenti longitudinali del fiume per creare una riserva d’acqua da utilizzare nei periodi di magra e garantire così il movimento meccanico dei mulini e degli opifici lungo le sue rive durante tutto l’anno. Si inizia a realizzarle dal XIV° secolo quando Firenze si appresta a diventare un centro di importanza mondiale nel settore della lavorazione dei tessuti. Tali sbarramenti segneranno la fine della navigazione e del trasposto delle merci tramite navicelli, almeno nei tratti urbanizzati dove risultavano più concentrati i mulini e gli opifici mossi dalla forza dell’acqua. All’inizio le pescaie furono costruite in legno, con pali conficcati nell’alveo del fiume e riempiti poi con materiale di risulta (terra, pietrame, paglia impastata con malta). Ma ben presto furono sostituiti da manufatti in pietra e mattoni più stabili e duraturi in occasione delle piene. L’acqua veniva convogliata in canali laterali (gore) che conducevano con un salto adeguato direttamente sulle pale e sul ritrecine.
Nelle pescaie più grandi, in prossimità della riva, venivano realizzate delle vere e proprie porte all’interno di piccoli casotti, che venivano aperte in occasione del transito dei “foderi” , il sistema di trasporto dei tronchi dalle foreste del Casentino fino alla piana dove si provvedeva alla lavorazione del legname. Alcune di queste “porte foderaie” sono visibili ancora oggi.
I RENAIOLI
L’Arno è stato da sempre la fonte inesauribile di rena e ghiaia, materiale indispensabile all’attività edilizia. I renaioli portavano i loro barchini nelle secche e con una sorta di cucchiaio fissato a una pertica estraevano il materiale dal fondo del fiume, la caricavano sul barchino, che pieno di rena bagnata sembrava dovesse affondare da un momento all’altro. Poi raggiunta la riva la scaricavano e la vagliavano con una rete a maglie molto fitte per dividere i sassi e il pietrisco dalla rena, che così selezionata era radunata e successivamente caricata su carri a due ruote trainate da un cavallo che li trasportava sui cantieri dove veniva trasformata in malta per le costruzioni edili.
All’inizio del secolo scorso il lavoro dei renaioli era svolto lungo tutto il corso cittadino del fiume (in prossimità del ponte S.Niccolò, al ponte alle Grazie, al ponte alla Carraia ecc.). Poi il lavoro dei renaioli è andato in disuso perché non più produttivo e sostituito dalle grandi draghe che operavano in località al di fuori del centro città (Peretola, S.Donnino, Rovezzano ecc.).
I TIRATOI
I tiratoi erano grandi strutture costruite lungo il corso del fiume o nelle sue immediate vicinanze, dove era facile approvvigionarsi di acqua corrente necessaria alla lavorazione dei tessuti e alla sua tintura.
Di norma il piano terreno era realizzato in muratura, mentre il piano superiore era costituito da grandi e fitte spalliere in legno dove venivano stese ad asciugare le pezze di stoffa dopo la lavatura e la tintura.
I più grandi erano il Tiratoio delle Grazie, nell’attuale piazza Mentana, il Tiratoio dell’Uccello nell’attuale piazza Cestello e il Tiratoio di S.Frediano.
Fin dalla fine del medioevo la ricchezza di Firenze si è fondata sulla lavorazione dei tessuti, da qui la grande quantità di tiratoi grandi e piccoli e di gualchiere per la finitura dei tessuti, che poi i mercanti fiorentini vendevano in tutta Europa.
Oggi non esistono più tali strutture, ma ne rimane il ricordo attraverso i toponimi delle strade cittadine.
LA PESCA
Quando i trasporti non erano sviluppati come oggi, era difficile in città approvvigionarsi di pesce di mare, pertanto fino all’inizio del secolo scorso il pesce che si mangiava a Firenze era pesce d’Arno.
La pesca nel fiume era una attività molto sviluppata, sia quella individuale, fatta a riva con una semplice canna, che contribuiva a mettere in tavola la cena nelle famiglie meno abbienti, ma anche quella fatta come vero e proprio lavoro per alcuni pescatori che poi rivendevano il pescato nei mercati, alle osterie oppure lungo le strade cittadine.
La pesca avveniva con la “bilancia”, un semplice attrezzo formato da due listelli metallici o di legno incrociati alle cui quattro estremità era fissata una rete. Collegata ad una pertica fissata a prua del barchino, veniva calata in acqua e poi issata per raccogliere i pesci che vi restavano intrappolati.
Lo sviluppo del commercio e poi il progressivo degrado della qualità delle acque hanno contribuito alla fine di questa attività. Oggi si pratica solo la pesca sportiva non più legata però all’uso alimentare.
LE LAVANDAIE E I CENCIAIOLI
Due attività apparentemente secondarie si svolgevano sul greto dell’Arno: i cenciaioli e le lavandaie.
In un’epoca dove lo spreco era un lusso che non ci si poteva permettere, anche gli abiti e i vecchi teli erano una merce preziosa. Per le strade di Firenze passavano i cenciaioli, con il loro “barroccio” trainato da un asino o un vecchio cavallo e per pochi spiccioli raccoglievano gli abiti e i tessuti di cui la popolazione si disfaceva.
Finita la gita i cenciaioli approfittando della magra estiva del fiume scaricavano i panni sul greto. Quelli migliori li lavavano e li facevano asciugare al sole per poi rivenderli come abiti usati. I rimanenti venivano venduti ai filatoi di Prato che li utilizzavano per produrre nuovi tessuti. All’epoca le fibre erano di origine naturale (cotone, canapa, lana) quindi riutilizzabili. Col miglioramento delle condizioni economiche questa pratica di riciclo è andata ad esaurirsi, provocando indirettamente la crisi del settore tessile pratese.
Oggi gli abiti dismessi vengono gettati nei cassonetti dell’indifferenziato perché le nuove fibre sintetiche non consentono più il riuso dei panni.
Rimane solo il ricordo di una attività fiorente in un periodo in cui eravamo tutti più poveri.
Prima dello sviluppo di massa degli elettrodomestici nell’epoca del “boom economico” degli anni 60, in pochissime case fiorentine c’era una lavatrice. Il bucato era fatto a mano ad opera esclusivamente delle donne.
I capi più piccoli erano lavati in casa, quelli più ingombranti (lenzuoli, teli, coperte ecc.) venivano lavati nei lavatoi pubblici o lungo il greto del fiume.
In luoghi comodi si radunavano gruppi di donne che provvedevano a lavare e poi asciugare al sole i panni.
Era un lavoro duro e faticoso che aveva però un aspetto secondario anche positivo. Per molte donne era l’unico momento di vita sociale e collettiva. Mentre i panni asciugavano al sole quelle donne stavano insieme, parlavano, si raccontavano i problemi e nasceva così una sorta di associazione al femminile, in un’epoca in cui la libertà e l’emancipazione della donna era ancora lontana da venire.
LE NAVI E I NAVICELLI
Il fiume, come abbiamo visto, produce molti benefici a favore della vita e delle attività dei suoi abitanti, ma rappresenta anche una barriera che separa le due sponde, rendendo difficoltosi gli spostamenti e gli scambi tra le persone.
Nelle città e nei centri abitati si sono costruiti ponti, ma nelle zone di campagna la costruzione di un ponte risultava molto oneroso in rapporto al suo utilizzo.
Per collegare dunque le due sponde esistevano fino ai primi anni del XX° secolo un numero molto elevato di traghetti per transitare da un territorio a quello posto all’altro lato dell’alveo del fiume.
Esistevano due tipi di traghetti: le navi, sorta di chiatte larghe circa 2 metri e lunga 4/5 metri, che consentiva il transito di persone ma anche di barrocci e carri trainati da buoi o cavalli. Queste imbarcazioni erano ancorate ad un cavo metallico teso tra due pali conficcati sulle due sponde e il “navalestro” (il conduttore del traghetto) lo spingeva facendo leva con una lunga pertica. Si pensi che nel tratto di fiume che va da Rovezzano a Pontassieve esistevano almeno sei o sette traghetti: la Nave a Rovezzano, la Nave dell’Anchetta, il passo della Nave a Compiobbi, la Nave ai Martelli in prossimità delle Gualchiere di Remole, a Sieci c’erano 2 Navi in località Castellare e ad Aschieto, la Nave di Rosano in prossimità della confluenza del fiume Sieve.
In luoghi intermedi c’erano poi i navicelli, barche a fondo piatto, lunghi dai sette ai dieci metri, spinte da un navalestro che spingendo su una lunga pertica immersa sul fondo consentiva l’avanzamento del barchino contrastando la corrente del fiume e dirigendolo così all’approdo d’arrivo.
La pratica dei traghetti è andata via via esaurendosi fino alla scomparsa definitiva con l’alluvione del 1964, che ha spazzato via anche molte attività e istallazioni presenti sulle rive dell’Arno.
IL PONTE SOSPESO DI GUIDO BARTOLONI
L’ultimo navalestro di Anchetta è stato Guido Bartoloni, nono di dieci figli, che nel 1947 si mette in testa di costruire un ponte sospeso. Manda in pensione il grosso navicello e il barchetto ausiliario, chiamato “Napoleone”, per iniziare i lavori per la costruzione di un ponte sospeso, capace di far transitare oltre ai carri di buoi anche le moderne automobili. La passerelle in due anni di duro lavoro viene costruita dalle mani di un solo uomo.
Guido Bartoloni va in giro per i depositi di ferrivecchi dove trova cataste di rottami di guerra, pali di ferro, viti e bulloni, tutto trasportato da Firenze ad Anchetta (circa 6 Km) a mezzo della sua bicicletta.
Scava due buche profonde 3 metri e larghe 4, in cui colloca i pali di ferro per ancorare i cavi. Si procura poi un cavo dismesso da una teleferica distrutta durante la guerra, lo aggancia al palo poi lo tende e lo trasporta con un barcone fino all’altra riva dell’Arno, mettendolo in tensione con un piccolo paranco. Ripete questa operazione per gli altri cavi e costruisce così la struttura portante del suo ponte.
Poi appeso ai cavi provvede a fissare le assi con dadi e bulloni realizzando così il piano di calpestio del ponte.
Alla fine il ponte, ad una sola campate, sarà lungo 98 metri, largo 4 metri e posto a circa 7 metri sul livello dell’acqua. Avrà una portata collaudata di 15 quintali e vi potranno transitare carri, auto e autocarri leggeri.
Dalla parte destra del fiume il ponte si innesta direttamente alla strada statale 67, mentre dalla parte sinistra, tramite una rampa, va ad immettersi nella strada di Rosano all’altezza della frazione di Vallina.
Domenica 10 luglio 1949 alla presenza dei sindaci di Fiesole e di Bagno a Ripoli, con la benedizione del prete di Quintole, viene inaugurato il nuovo ponte sospeso di Anchetta.
All’epoca, per il recupero delle spese sostenute sono applicate le seguenti tariffe:
pedoni lire 25,
biciclette 30,
carri e moto 50,
auto e autocarri 100.
Purtroppo Guido Bartoloni potrà godersi per poco il frutto del suo lavoro, morirà infatti nel 1952. Il ponte rimarrà in servizio fino al 1966 quando la storica piena dell’Arno spazzerà via in poche ore il suo capolavoro.
LE GUALCHIERE DI REMOLE
Il documento più antico sulle Gualchiere di Remole è una carta del 1425 dalla quale si apprende che esisteva “….una pila posta nelle Gualchiere di Remole sotto la torre di verso Firenze……e cinque pile di ghualchiere nella chasa di Remole” di proprietà di alcuni membri della famiglia Albizzi.
Sulle origini delle Gualchiere di Remole la storiografia ha tesi non univoche. Repetti propende per la tesi secondo cui il sito originariamente era un castello medioevale esistente già nel X sec., oppure una fattoria fortificata con un recinto murario, sempre risalente al X sec., poi convertito in edificio industriale, con la realizzazione della pescaia, della porta foderaia e delle gore.
Salvini al contrario sostiene che l’intero complesso sarebbe stato costruito ex novo nel XIV sec., a compimento dell’Opus Novarum Gualcherorum, in osservanza dei divieti imposti dal Comune di Firenze, dopo l’alluvione del 1333, che vietavano la realizzazione di opifici, pescaie, mulini e gualchiere per 4000 braccia ad Ovest del ponte alla Carraia e per 2000 braccia ad Est del ponte alle Grazie.
Da un censimento fiscale condotto dai Capitani di Parte Guelfa risulta che nel 1425 gli stabilimenti per la gualcatura della lana nel territorio fiorentino erano quattro, tutti di proprietà degli Albizzi: Remole, Rovezzano, Quintle e Girone.
Nel periodo di appartenenza agli Albizzi l’edificio ospitava 12 pile da Gualchiera e due mulini a ritrecine.
Nel 1708 l’Arte della Lana sostituì le vecchie pile da gualchiera con 3 nuove pile all’olandese, apparati molto sofisticati e più efficienti, che garantivano risultati migliori.
Dopo il 1770, anno in cui il Granduca Pietro Leopoldo abolì le corporazioni e istituì la Camera di Commercio, per le Gualchiere di Remole si presentarono tempi non facili.
Dal 1851 poi molti locali all’interno del complesso vennero modificati. L’industria laniera fiorentina era decaduta, quindi gli stabilimenti di Remole furono modificati per ospitare un gran numero di mulini.
Nel 1863, accanto alle 2 gualchiere all’olandese, erano presenti ben 13 mulini, installati per soddisfare le accresciute necessità alimentari di Firenze, divenuta Capitale d’Italia.
Nel 1944 i Tedeschi in ritirata distrussero parte del complesso e le due porte di accesso al borgo. L’alluvione del 1966 distrusse un piccolo edificio adiacente oltre al traghetto (la Nave ai Martelli) che per secoli aveva garantito il collegamento dell’opificio alla città di Firenze, sia per la fornitura della materia prima che per la restituzione del prodotto lavorato.
Il 1980 segna la cessazione di ogni attività all’interno del complesso.
IL PROCESSO PRODUTTIVO DEI PANNI
Nel medioevo uno degli usi più importanti della forza idraulica si applicò alla follatura o gualcatura dei tessuti. Si tratta di un procedimento cui venivano sottoposti i panni (un panno misurava mediamente 33 metri) dopo la tessitura, battendoli e bagnandoli continuamente con acqua calda e varie soluzioni a base di sapone, argilla ed anticamente anche urina. Il risultato era un infeltrimento delle fibre che conferiva al tessuto migliori doti di compattezza e resistenza.
Anticamente questo processo era eseguito da schiavi che battevano coi piedi panni immersi in grandi catini con acqua bollente. E’ chiaro che l’applicazione della forza idraulica consenti un maggiore rendimento del processo produttivo procurando un grande sviluppo del settore tessile in Italia ed in particolare a Firenze.
Il salto di qualità è dovuto a tre ordini di fattori. La sostituzione della lana proveniente dal Mediterraneo occidentale e dal sud della penisola con la ben più pregiata lana inglese e del nord Europa, che i mercanti fiorentini cominciarono ad importare regolarmente. Un miglioramento della fase di tessitura ad imitazione delle manifatture delle Fiandre, considerate al tempo le migliori d’Europa. Infine l’accuratezza della fase di tintura dei tessuti che in breve tempo portarono la manifattura italiana a livelli di gran lunga superiore a quella di altri paesi.
Quindi dal XIV sec. la produzione venne orientata verso la realizzazione di tessuti di lusso che i mercanti fiorentini esportavano poi in tutto il mondo allora conosciuto.
La produzione dei tessuti di lana a Firenze era disciplinata da una Corporazione (L’Arte della Lana), una associazione di mestiere che tutelava gli interessi della categoria. Si trattava di un’Arte ricca e potente, con un proprio palazzo, una sostanziale autonomia nella gestione economica e produttiva ed una ampia giurisdizione in materia di conflitti di lavoro.
Come altre attività produttive anche la produzione della lana era concentrata in particolari zone della città; le botteghe erano ubicate intorno all’attuale via Della Vigna Nuova e via Maggio. Quella dei tintori nel quartiere di S. Croce e adiacenze, mentre quella dei Cimatori e Rammendatori nella zona di Orsamichele e Porta Rossa.
TOPOGRAFIA DELLE GUALCHIERE FIORENTINE
Dopo l’anno Mille, quando le gualchiere si diffusero in Italia, la loro proprietà era appannaggio di grandi famiglie o di enti ecclesiastici, perché i costi di costruzione e gestione di questa fase del processo di lavorazione del “panno” era di gran lunga il più alto dell’intera filiera.
In area fiorentina le gualchiere erano disposte sia sull’Arno che sui suoi affluenti. Nel XII sec. sul Mugnone, in località Fonte Lucente, nei pressi di Pian del Mugnone era attivo un opificio per la sodatura dei tessuti. Nel 1277 un consorzio di grandi casate fiorentine, fra cui i Tornaquinci e i Frescobaldi, fece erigere un complesso per la gualcatura dei panni in località Ognissanti, alla confluenza tra Arno e Mugnone.
Un documento della prima metà del Trecento parla di un prestito effettuato dall’Arte della Lana a Umberto di Lanzo degli Albizzi per la realizzazione di nuove gualchiere sull’Arno.
Con la rovinosa alluvione del 1333 molti opifici andarono distrutti e da questo momento rimarranno attive quelle installate lungo l’Arno a debita distanza dalla città. Nel tratto superiore sono ricordate quella di Rovezzano, Girone, Quintole e Remole, tutte di proprietà della famiglia Albizzi.
Per le gualchiere appartenenti a questa famiglia, è possibile conoscere almeno tre forme di gestione. L’affitto, ben presto però caduto in disuso. Il gualchieraio, dietro pagamento di un canone annuo per l’affitto di una o più pile, provvedeva poi in proprio all’organizzazione del lavoro e ai rapporti con il lanaiolo che gli conferiva il lavoro. Una seconda forma era costituita da una forma societaria costituita dal proprietario e dal gualchieraio che si dividevano secondo determinate percentuali i rischi e gli utili. Infine esisteva una gestione diretta da parte dei proprietari dell’opificio ed il gualchieraio era una sorta di “fattore” che si doveva occupare del processo lavorativo e di norma veniva pagato a cottimo.
Qualunque fosse la forma di contratto questo era sempre ben regolato, con norme molto rigide e comunque sempre con la supervisione e l’approvazione dell’Arte della Lana.
Si ha notizia nel 1427 di una astensione dal lavori di alcuni lavoratori delle gualchiere a causa dei reiterati ritardi nei pagamenti pattuiti da parte degli imprenditori lanieri. La Corporazione reagì molto duramente nei confronti dei lavoratori delle gualchiere di Remole e Girone, che vennero fermati e processati. I lavoratori ricorsero ai Consoli dell’Arte rivendicando la loro fedeltà lavorativa e la mancanza di disponibilità a pagare la sanzione comminata. I Giudici della Corporazione preferirono non infierire, così i gualchierai poterono tornare al lavoro e tutto tornò come prima.
I FODERI
Fin dal medioevo le foreste Casentinesi e i boschi di Vallombrosa sono stati una fonte inesauribile per Firenze e la piana del Valdarno di legname per le costruzioni edili, i ponteggi, la falegnameria, ma anche per la costruzione di navi a Pisa, Limite sull’Arno e Livorno.
I tronchi tagliati e ripuliti dai rami venivano trasportati con l’uso di buoi fino all’Arno che in quel tratto ha ancora un carattere torrentizio. Anche dal Mugello proveniva il legname, soprattutto i lunghi tronchi che poi diventavano gli alberi e i pennoni dei velieri. Questi ultimi scendevano lungo la Sieve fino all’Arno e poi fino alla costa.
Le carovane di buoi giungevano presso piccoli porti, detti “legatoi” (anse del fiume dove l’acqua scorre più lentamente) a Pratovecchio, Ponte a Poppi, S.Ellero per il legname proveniente da Vallombrosa e Dicomano e Castelluccio sulla Sieve. Qui i tronchi venivano radunati, selezionati per forma e qualità e legati insieme in numero di otto, dieci con dei canapi. Si formava così una sorta di zattera, lunga in media dai quindici ai venti metri, i cosiddetti foderi. Più foderi uniti in sequenza uniti fra loro con catene formavano la cosiddetta “madiata”.
Da questi porticcioli partivano dunque i foderi guidati dai foderatori. Il trasporto avveniva in inverno e nelle stagioni di mezzo quando la portata del fiume era tale da consentire una agevole navigazione dei tronchi.
In prossimità delle pescaie si aprivano le cosiddette porte foderaie.
“La porta foderaia, detta anche callone era un’apertura a lato della pescaia con una soglia molto più bassa di quella normale che consentiva di raccogliere maggior quantità d’acqua. Una cateratta di legno o di ferro poteva essere aperta per far passare i foderi o chiusa per convogliare l’acqua nelle gore dei mulini che si trovavano sulle rive dell’Arno o nella vicina campagna…….Anticamente, il primo punto d’arrivo a Firenze era sulla riva destra dell’Arno nei pressi di porta alla Croce ‘al luogo solito delle capanne’ che ‘serviva per tenerci canapi, attrezzi e arnesi per le fodere e per lo scarico di essi se fosse bisognato’. Più giù, sulla sponda sinistra della pescaia di S.Niccolò dove alcune erano vendute e altre, per uso diretto dell’Opera, raggiungevano la Porticciola d’Arno che esisteva dopo il ponte alle Grazie, che non a caso era detta piazza delle Travi o dei Foderi (oggi piazza Mentana). Questo luogo era identificato con il curioso nome di Chiucchiurlaia per il baccano e frastuono che vi regnava in continuazione. Infatti, oltre i falegnami che squadravano e ripulivano i tronchi – all’angolo con via Mosca era stato aperto anche un ufficio dell’Arte dei Legnaiuoli – c’erano i lanieri del tiratoio, i tintori, i saponai e le lavandaie”. (Casprini, Gabrielli. Arno più fatti che rena. Coppini Tipografi).
La pratica dei foderi è perdurata fino al XIX° secolo. Molti i fattori che hanno contribuito a far diventare inattuale e non più redditizio questo duro lavoro. La creazione di aziende che provvedono alla lavorazione del legno a monte, in prossimità dei luoghi di taglio, una minore richiesta di travi di lunga dimensione per l’edilizia e i ponteggi, lo sviluppo della rete ferroviaria e progressivamente quello del trasporto su gomma. Infine la trasformazione della cantieristica navale. Le navi sono ormai costruite in ferro e la trazione non avviene più a vela, ma a vapore.
LE FESTE, LO SVAGO, LA PRATICA SPORTIVA
A cavallo tra il XIX° e il XX° secolo, quando la mobilità privata era poco sviluppata (solo pochissimi possedevano un mezzo a motore e il cavallo era utilizzato quasi esclusivamente per lavoro) gli spostamenti delle persone erano limitati alle zone limitrofe alla propria residenza. Pertanto lo svago e il tempo libero era limitato e le rive del fiume rappresentavano un luogo privilegiato per le feste e il divertimento, soprattutto d’estate, quando l’acqua corrente procurava un piacevole refrigerio. Il bagno in Arno era la villeggiatura della povera gente.
Lungo le sponde cittadine erano sorti molti stabilimenti balneari. Il più famoso era il bagno della Vagaloggia, poco fuori la portucola del Prato. Vi erano cabine per cambiarsi e con pochi spiccioli si poteva affittare un telo per asciugarsi. Gli spazi per il bagno erano divisi tra gli uomini e le donne.
Altri stabilimenti erano la Buca del Canto, lungo il prato del palazzo Torrigiani e il Fischiaio, nella zona del mulino dei Renai. Alle mulina di S.Niccolò c’era un bagno, di carattere forse più popolare, un altro esisteva nei pressi della Zecca Vecchia.
Successivamente furono aperte nuove strutture sulle rive a monte, dove l’acqua era più pulita, in quanto non contaminata dagli scarichi urbani. Altri stabilimenti furono aperti dal Comune in prossimità del ponte S.Niccolò, alla confluenza del torrente Affrico e nella zona di Bellariva.
All’altezza di palazzo Corsini vi era uno zatterone ancorato ad un palo nel mezzo del letto del fiume. Il caffè birreria galleggiante conteneva una ventina di tavoli ed era illuminato per trascorre anche le notti sul fiume. In alcune serate un complesso musicale consentiva anche feste e balli.
Una novità per Firenze fu l’inaugurazione il 15 settembre 1932 della motonave Fiorenza. Dai giornali dell’epoca si legge “a bordo della motonave Fiorenza si gode un dolce e incantevole tramonto e si passa una serata navigando sul vecchio Arno. Canti, musica, danze. Le persone fini e di buon gusto vi si danno convegno e ne rimangono entusiaste”. La nuova attrazione durò solo pochi anni. La motonave fu prima ancorata davanti a palazzo Corsini, poi smantellata, riportata ai cantieri Picchiotti di Limite sull’Arno, che l’avevano costruita, quindi fu ampliata e trasportata a Torino dove continuò la navigazione su fiume Po.
Lungo le rive cittadine dell’Arno vi erano varie società sportive per la pratica del nuoto, dei tuffi e del canottaggio. Trampolini erano sorti tra il ponte S.Trinita e ponte alla Carraia, la Società canottieri Libertas e la Rari Nantes Florenzia, nei pressi di ponte S.Niccolò.
IL canottaggio fiorentino ha origini antiche, risalgono alla seconda metà del XIX° secolo. Nel 1860 nasce la Florentia, nel 1886 la Amerigo Vespucci. Entrambe le società ebbero vita breve, ma alcuni soci di entrambe nel 1911 fondarono la Società Canottieri Firenze, tutt’ora attiva, con sede nei pressi di ponte Vecchio, sotto la terrazza della Galleria degli Uffizi.
Nel 1935 viene fondata la Canottieri Comunali di Firenze, tutt’ora attiva, con sede in prossimità dell’attuale ponte da Verrazzano.
Fonti:
Beringhiero Buonarroti, Il triangolo delle Gualchiere. Ed Polistampa
Massimo Casprini e Antonio Gabrielli, Arno più fatti che rena. Foderi foderatori e porte foderaie. Coppini Tipografi ed.
Andrea e Fabrizio Petrioli, 50 a.C. Firenze e l’Arno. Sarnus ed.
Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città. Mandragora ed.
Comuni di Firenze, Bagno a Ripoli e Pontassieve, Le Gualchiere di Remole e il territorio del fiume Arno. Polistampa ed.